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L’ETERE LUMINIFERO


I misteri agli sciocchi van celati.
ʿUmar Khayyām (Rubayyāt)


Per lo stolto, l’occulto non esiste.
Vasiṣṭha
Maitrāvaruni (Ṛgveda)


In un mondo umano sempre più inflazionato dalla pseudo-scienza e dalla pseudo-spiritualità (new-age o altra paccottiglia), è confortante notare l’effetto positivo suscitato dall’incontro di un grande scienziato con una personalità spirituale genuina e di rilievo. Il grande mistico indiano Swami Vivekananda (discepolo di Sri Ramakrishna) ebbe un primo incontro con lo scienziato Nikola Tesla nel 1896, a New York, in occasione di un party organizzato dalla grande attrice francese Sarah Bernhardt. La vasta erudizione di Vivekananda comprendeva la scienza fisica (sia quella dell’antica tradizione indiana, sia quella moderna), pertanto Tesla era particolarmente interessato a conversare con il grande yogi, soprattutto dopo che venne pubblicato (nel mese di febbraio 1895) un articolo di quest’ultimo sulla prestigiosa rivista medica del dottor Egbert Guernsey (uno dei più famosi medici omeopati della storia); la rivista mensile da questi diretta e fondata era collegata al celebre quotidiano Times, infatti prese il nome di New York Medical Times e riscosse un consenso internazionale nel panorama medico e scientifico dell’epoca.

Un breve inciso: se ci fosse qualcuno tra i lettori del presente articolo che non conoscesse sufficientemente queste due eccelse personalità – Vivekananda e Tesla – se ne raccomanda vivamente l’approfondimento. Sri Ramakrishna considerava il proprio discepolo Vivekananda disceso da un piano di coscienza più elevato del proprio. Su Tesla citiamo l’aneddoto in cui una giornalista intervistò Einstein e gli chiese: «Come ci si sente a essere considerato il più grande genio del mondo contemporaneo?»; ed egli rispose: «Non lo so: chiedetelo a Nikola Tesla»!

Tornando all’articolo di Vivekananda comparso sulla rivista citata si intitola “The Ether” (vedi The Complete Works of Swami Vivekananda, vol. IX, da pag. 285 a pag. 289 della prima edizione; precisiamo che il nono volume venne aggiunto parecchi anni dopo la prima edizione dell’opera completa – i primi sette volumi vennero infatti stampati per la prima volta tra il 1907 e il 1922, l’ottavo nel 1951; il nono nel 1987) ed era incentrato sull’antica concezione indiana dello ākāśa – e, parallelamente, su quella greca dello aithḗr (αἰθήρ, latino æthēr) –, in relazione alle ipotesi scientifiche moderne. Dopo aver passato in rassegna le teorie della scienza moderna sull’etere (citando fisici a lui contemporanei, come i francesi Hippolyte Louis Fizeau e Jean Bernard Léon Foucault, e i tedeschi Johann Karl Friedrich Zöllner e Wilhelm Eduard Weber), lo Swami concluse l’articolo con una domanda (per lui) retorica:


«E così siamo costretti a riconoscere che l’etere (comprendente le molecole) spiega i fenomeni molecolari, ma da solo non può spiegare lo spazio, poiché non possiamo fare a meno di pensare all’etere come a un qualcosa contenuto nello spazio. Pertanto, se c’è qualcosa che possa spiegare questo spazio, deve comprendere nel suo essere infinito lo spazio infinito stesso. E che cosa può comprendere anche lo spazio infinito se non la Mente infinita?» (op.cit.).


L’espressione “Infinite Mind” utilizzata da Vivekananda è in realtà alquanto sibillina… Nell’opera The Life Divine, Sri Aurobindo precisa:


«E se ipotizzassimo una mente infinita [Infinite Mind] libera dalle nostre limitazioni, potremmo considerarla a giusto titolo la creatrice dell’universo? Ma una simile mente non rientrerebbe affatto nella descrizione che attribuiamo a essa: verrebbe a trovarsi ben al di là – corrisponderebbe alla Verità sopramentale. Una mente infinita concepita nei termini della mentalità come noi la conosciamo, potrebbe creare solo un infinito caos, una collisione abnorme di possibilità, di casualità, di traversie erranti in direzione di un fine indeterminato verso il quale perennemente brancolerebbe e aspirerebbe. Una mente infinita, onnisciente, onnipotente non sarebbe affatto una mente, bensì la gnosi sopramentale.» (La vita divina, traduzione di Tommaso Iorco, edizioni Samizdat, pagg. 166-167 – la lettura del prosieguo di tale affermazione è altamente consigliata: qui preferiamo non inserirla, in quanto porterebbe troppo fuori dall’argomento del presente articolo).


In merito all’incontro fra le due grandi personalità, ecco cosa lo stesso Vivekananda riporta, in un un’epistola datata 13 febbraio 1896:

«Tesla era affascinato nel sentir parlare del prāṇa e dello ākāśa vedantici, come pure dei kalpa. Egli ritiene di poter dimostrare matematicamente che forza e materia sono riducibili a energia potenziale. Devo andare a trovarlo la prossima settimana per apprendere la sua dimostrazione matematica. In tal caso, la cosmologia vedantica sarà posta sul più sicuro dei fondamenti. Vedo chiaramente la loro perfetta unione con la scienza moderna – la delucidazione dell’una farà coppia con quella dell’altra.»

Nikhilananda, Swami Vivekananda, The Yogas and Other Works,
edito dallo Ramakrishna-Vivekananda Center di New York.


A Tesla, per la verità, non riuscì di dimostrare matematicamente l’equivalenza fra materia ed energia, ma (come universalmente noto) di lì a poco vi pervenne Albert Einstein (nel 1905), giungendo alla formula ormai nota anche ai bambini: E = mc2.

A ogni modo, per tornare al rapporto fra Vivekananda e Tesla, nessun resoconto esiste del secondo incontro avvenuto tra il mistico e lo scienziato, ma da quel momento quest’ultimo iniziò a utilizzare termini sanscriti in collegamento a certe sue invenzioni e scoperte. Relativamente alla fisica indiana, Tesla scrisse:

«Molto tempo fa, l’umanità riconobbe che tutta quanta la materia percepibile proviene da una sostanza primaria, sottile oltre ogni immaginazione, che pervade l’intero spazio, l’ākāśa o etere luminifero, su cui agisce il prāṇa o forza creativa che dà la vita, chiamando all’esistenza, in cicli senza fine, tutte le cose e i fenomeni. La sostanza primaria, proiettata in vortici infinitesimali di velocità prodigiosa, diventa materia densa; ritirata la forza, il moto cessa e la materia scompare, ritornando alla sostanza primordiale.»

Nikola Tesla, da “Man’s greatest achievement”,
Milwaukee J. Sentinel, 13 July 1930.


Secondo la filosofia indiana, infatti, ākāśa funge da intermediario fra la mente e la materia, in forma di energia vitale, prāṇa.


ākāśas talliṅgāt || 22 ||
ata eva prāṇah || 23 ||


«Ākāśa [è Brahman] nel suo stato d’essere caratterizzante.»(22)

[talliṅgāt: parola composta formata da tat + liṅgam].

«Pertanto, [Brahman] è anche l’energia vitale.»(23)

Brahma Sūtra, I.I.22-23.


E, ancor più sostanzialmente, ākāśa è ānanda


[…] ko hyevānyātkaḥ prāṇyāt |
gradeṣa ākāśa ānando na syāt
| […] || 7 ||


«Chi vivere potrebbe o respirare
se non ci fosse questa gioia d’essere
quale etere in cui noi dimoriamo?»(7)

TaittirīyaUpaniṣad, II.7.


In alcuni contesti sapienziali, lo spazio interiore del cuore è detto etereo (antar hṛdaya ākāśa). Si comprende subito che il concetto di etere non coincide con l’ipotesi scientifica in voga fino al XIX secolo, secondo cui si riteneva che attraverso di esso si propagassero le onde elettromagnetiche. Gli Indiani e i Greci ritenevano che l’etere permeasse l’intero spazio, ma in modo estremamente più sottile rispetto ai quattro elementi largamente noti e unanimemente riconosciuti (terra, acqua, aria, fuoco, né con i quattro stati della materia: solido, liquido, gassoso e plasma); secondo Aristotele, l’etere era eterno, immutabile, senza peso e trasparente; mentre durante il Rinascimento alcune correnti neoplatoniche ravvisavano nell’etere (o quintessenza) una sorta di collegamento fra spirito e natura. Finché Einstein, nella sua teoria della relatività ristretta, si sbarazzerà in modo eccessivamente frettoloso (come lui stesso ebbe poi ad ammettere) dell’etere; nel 1919, egli precisò infatti che «sarebbe stato più corretto se nelle mie prime pubblicazioni mi fossi limitato a sottolineare l’impossibilità di misurare la velocità dell’etere, invece di sostenere la sua non esistenza»; e l’anno seguente aggiunse: «Anche se nel 1905 ritenevo che in fisica non si potesse assolutamente parlare di etere, questo giudizio era troppo radicale, come possiamo notare con le considerazioni della relatività generale. È quindi permesso assumere un principio, nello spazio, atto a colmare, in riferimento al campo elettromagnetico e quindi anche alla materia. Non è lecito tuttavia attribuire a tale principio uno stato di movimento in ogni punto in analogia con la materia ponderabile. Questo etere non può essere concepito come consistente di particelle».

Sri Aurobindo distingue due forme di ākāśa: materiale e immateriale (sthūlae sūkṣma), così come per ciascuno dei cinque elementi principali (mahābhūtāni) ravvisa sette specifiche forme di sostanza – ma non è il caso di entrare nel merito di tali distinzioni in questa sede, riteniamo sufficiente accennarle per suggerire la complessità di un simile impianto gnoseologico.


«Nel Ṛgveda, l’etere figura essere il massimo simbolo dell’Infinito, l’ápeiron dei Greci; l’acqua simboleggia quello stesso Infinito sotto l’aspetto di sostanza originaria; il fuoco è il potere creativo, l’energia dinamica dell’Infinito; l’aria, il principio vitale, fa discendere il fuoco dai cieli eterei fin sulla terra. Con ogni evidenza, questi non sono dei semplici simboli: risulta chiaro che i mistici vedici scorsero una connessione profonda, un parallelismo effettivo, tra le attività fisiche e quelle psichiche, per esempio tra l’azione della luce e il fenomeno della illuminazione mentale. Per essi, il fuoco era al tempo stesso l’energia divina luminosa, la Volontà-veggente della Deità universale, attiva e creatrice dell’intero esistente, il principio fisico creatore delle forme sostanziali dell’universo, che arde segretamente in ogni vita.» Sri Aurobindo (da Heraclitus, vol. Essays in Philosophy and Yoga – traduzione di prossima pubblicazione presso Samizdat).


Nel sistema speculativo indiano, ākāśa (vyoman) genera il suono e, negli esseri senzienti, l’udito (e, per conseguenza, l’orecchio fisico); simbolicamente (e nei ‘mudra’ ciò susciterà precise connessioni), questo elemento viene fatto corrispondere al dito medio (madhyama). Analogamente per gli altri elementi: aria, vāyu (marut), tatto (epidermide), dito indice (tarjanī); fuoco, agni (tejas), vista (occhio), pollice (anguṣṭha); acqua, āpas (jala), gusto (lingua), dito mignolo (kaṁṣthiki); terra, pṛthivī (kṣiti), olfatto (naso), dito anulare (anamika).

Nel sistema noto con il nome di vaiśeṣika, in particolare, ākāśa viene descritto e riferito non solo allo spazio, al tempo e alla sostanza materica, ma anche in relazione a specifici attributi inerenti alla percezione della materia. Tale sistema principia dall’elencare sei categorie ontologiche (padārtha) ben note ed esperibili da chiunque, le quali costituiscono i sei fondamentali della materia; esse sono: la sostanza, la qualità, il movimento, gli universali, la peculiarità e la connessione. L’interrelazione e la compenetrazione fra queste categorie rende possibile esperire la realtà materiale. La sostanza è la qualità primaria e le altre cinque sorgono da essa, la quale può essere sia materiale (gli oggetti tangibili, composti da atomi), sia non materiale (tempo, spazio, ākāśa). Quando l’universo viene riassorbito, al termine di un ciclo cosmico (kalpa), la materia non si annichilisce, ma si limita a mutarsi in uno stato quiescente in cui gli atomi diventano immobili e pertanto non sono più visibili – il che determina il cessare del tempo, in quanto quest’ultimo misura quanto si muove. Quando gli atomi riprendono la loro danza, inizia un nuovo ciclo cosmico. Questa, per sommi capi, la spiegazione offerta dal vaiśeṣika. Il suddetto moto ciclico di espansione e contrazione (il big bang e il big crunch della scienza moderna) è, per la filosofia indiana, eterno: avviene da sempre e per sempre. Sri Aurobindo precisa però che ogni nuovo kalpa apporta qualcosa di nuovo, possibilità prima non espresse (o non pienamente manifeste), fino all’instaurarsi della coscienza gnostica che muterà l’assetto di fondo del Divenire, con tutte le conseguenze che ciò implicherà (ampiamente esaminate nella citata opera The Life Divine di Sri Aurobindo, di cui caldeggiamo la lettura – per chi non conoscesse l’inglese, nel 2024 è stata approntata la succitata traduzione, davvero superlativa, da parte dell’infaticabile Tommaso Iorco, dal titolo La vita divina).

Concludiamo quindi con una lunga citazione tratta dal decimo capitolo de La vita divina, in cui viene illustrata la funzione basilare dello ākāśa nella fondazione dell’universo materiale.


«La materia costituisce l’aspetto della forza più facilmente comprensibile al nostro intelletto, condizionato com’è dai con­tatti fisici ai quali risponde una mente involuta nel cervello mate­riale. Nella visione degli antichi fisici indiani, lo stato elementare della forza materiale è una condizione di pura estensione mate­rica nello spazio, la cui precipua caratteristica è la vibrazione, per noi rappresentata dal fenomeno del suono. In un simile stato etereo, però, la vibrazione non è sufficiente per creare le forme. Deve anzitutto prodursi una qualche ostruzione nel flusso della forza oceanica, una qualche contrazione ed espansione, un inter­scambio di vibrazioni, una collisione di energie tale da creare un inizio di relazioni fisse e di effetti reciproci. Trasformando il suo stato etereo originario, la forza materiale ne ingenera un secondo, denominato aereo nell’antica terminologia, la cui peculiare pro­prietà si esplica nello stabilire contatti tra le diverse forze, una interazione fondamentale per tutte le relazioni materiali. Ciò nonostante, non si sono ancora prodotte forme concrete, solo forze variabili. Un principio sostenitore è necessario: esso viene fornito da una terza modificazione che la forza primigenia attua in sé, per noi riconoscibile in quella sua caratteristica specifica esplicantesi nel principio di luce, elettricità, fuoco e calore. Pure così, però, ravvisiamo forme di forza atte a preservare ciascuna un carattere distinto e peculiare, ma non forme stabili di materia. Un quarto stato, contraddistinto dalla diffusione, che funge da primo costituente di attrazioni e repulsioni permanenti, pittoresca­mente designato acqua o stato liquido, e un quinto stato di coesione, chiamato terra o stato solido, completano gli elementi necessarî.

Tutte le forme materiali di cui siamo coscienti, tutte le cose fisiche, incluse le più sottili, provengono dalla combina­zione di questi cinque elementi. Da essi dipende pure l’intera nostra esperienza sensoriale: dalla ricezione della vibrazione deriva il senso del suono; dal contatto con le cose, in un mondo di vibrazioni di forza, il senso del tatto; dall’azione della luce entro le forme elaborate e plasmate, nutrite dalla forza di elettricità, fuoco e calore, il senso della vista; dal quarto elemento il senso del gusto; dal quinto il senso dell’odorato. Tutto è essenzialmente una risposta ai contatti vibratorî tra le forze. In tal modo gli anti­chi pensatori gettarono un ponte sull’abisso che separa la forza pura e le sue modificazioni terminali, risolvendo la difficoltà che impedisce alla mente ordinaria dell’uomo di comprendere come tutte le forme che ai proprî sensi appaiono così reali, solide e stabili, siano in realtà solo fenomeni passeggeri, mentre la pura energia, inesistente per i sensi, intangibile e quasi inconcepibile, costituisca l’unica realtà cosmica permanente.

La suddetta teoria non risolve il problema della coscienza; infatti, non spiega in che modo il contatto tra le vibrazioni della forza possa dare origine alle sensazioni coscienti. I pensatori analitici del sāṃkhya, per conseguenza, dietro questi cinque ele­menti postularono l’esistenza di due principî, che chiamarono mahat e ahaṁkāra, i quali in realtà non sono materiali, essendo il primo null’altro che il vasto principio cosmico della forza, l’al­tro il principio separatore della formazione egoica. A ogni modo, questi due principî, come pure il principio dell’intelligenza, diventano attivi nella coscienza non in virtù della forza stessa, bensì grazie a un’anima-cosciente inattiva, o una pluralità di anime in cui le attività della forza vengono a riflettersi e, mediante ciò, assumono la sfumatura della coscienza.

Tale è la spiegazione delle cose offerta dalla scuola di filosofia indiana che più si avvicina alle moderne teorie mate­rialiste e che, per quanto possibile a una mentalità indiana accortamente riflessiva, implica il concetto di una forza mec­canica o inconscia nella natura. Quali che siano i suoi difetti, l’idea centrale fu talmente indiscutibile che finì per essere unanimemente accettata. Comunque si voglia spiegare il feno­meno della coscienza, che la natura appaia un impulso inerte o un principio cosciente, essa implica innegabilmente la Forza: il principio delle cose è un moto formatore di energie – tutte le forme sono scaturite dall’incontro e dal mutuo adattamento tra potenze informi, ogni sensazione e azione è una risposta di qualcosa, in forma di forza, ai contatti con altre forme di forza. In tal modo noi esperiamo il mondo, e tale esperienza deve costituire il nostro imprescindibile punto di partenza.

L’analisi fisica della materia operata dalla scienza moderna è pervenuta alle medesime conclusioni generali, seb­bene qualche dubbio ancora permanga. L’intuizione e l’espe­rienza confermano un simile accordo tra scienza e filosofia. La ragione pura ravvisa in essa la conferma delle proprie con­cezioni essenziali. Peraltro, anche osservando il mondo fon­damentalmente come un atto di coscienza, risulta implicita la presenza di un atto e, in esso, un moto di forza, un gioco d’e­nergia. Pur quando esaminiamo dall’interno la nostra perso­nale esperienza, la natura sostanziale del mondo appare in modo siffatto. Tutte le nostre attività sono la coreutica della triplice forza delle antiche filosofie: forza conoscitiva, forza impulsiva, forza d’azione, le quali si rivelano essere in realtà tre correnti di un’unica Potenza originaria, Ādyā Śakti. Finan­che i nostri stati di riposo non sono che un mero bilanciamento o un equilibrio coreografico del suo movimento.

Una volta ammesso che il movimento della forza costi­tuisce l’intera natura del cosmo, sorgono due interrogativi. Anzitutto, come fece questo movimento a insediarsi in seno all’e­sistenza? Se supponiamo trattarsi di un moto non solo eterno, ma costituente l’essenza stessa dell’intera esistenza, la questione non si pone. Ma abbiamo confutato una simile teoria. Noi siamo consapevoli di un’esistenza non vincolata al movimento. Per­tanto, come può tale movimento, estraneo al suo eterno riposo, intervenire in essa? Mediante quale causa? Per mezzo di quale possibilità? Tramite quale impulso misterioso?

La risposta maggiormente accreditata dall’arcaica men­talità indiana fu che la Forza è inerente all’Esistenza. Śiva e Kālī, Brahman e Śakti sono uno e non due entità separabili. La forza insita nell’esistenza può trovarsi a riposo o in movi­mento, ma quando è in stato di riposo, nondimeno essa esiste e non è abolita, sminuita o in qualsivoglia modo alterata nella sua essenza. Si tratta di una risposta talmente razionale e conforme alla natura delle cose che possiamo accettarla senza esitazioni. È impossibile, infatti, giacché contraddice la ragione, supporre che la forza sia qualcosa di avulso dall’unica infinita esistenza e che sia entrata in essa dall’esterno, o che fosse inesistente e che sorse in essa in un determinato momento del tempo».

«L’etere può esistere — ed esiste — come supporto intangibile, quasi spirituale, della materia, sebbene in quanto fenomeno non sembra, perlomeno all’attuale conoscenza, materialmente rilevabile.»

SRI AUROBINDO – La vita divina
(Samizdat - editoria clandestina - op.cit. - pagg. 119-121 / pag. 322).


Tentando di riassumere questa ampia figurazione del mondo (vero e proprio affresco mondiale, jagaccitra), possiamo considerare ākāśa come lo stato elementare della forza materiale (pura estensione materica nello spazio), contraddistinto dalla vibrazione, da cui si origina il suono (śabda) e l’organo sensoriale corrispondente: l’udito (śrut). Nella pura estensione materica dello spazio, si produce una ostruzione del flusso, la quale genera il fenomeno alla base di tutte le relazioni materiali: uno stato di attrito e di contatto tra le varie forze – sparśa, con il senso del tatto correlato a esso. Interviene, a questo punto, il principio di luce, di elettricità, di calore igneo (tejas) e il senso della vista: dṛṣṭi. Lo stato di diffusione genera il dualismo di attrazione e repulsione, mediante il senso del gusto (rasa). Infine, si giunge alla estrema condensazione con lo stato solido (rūpa) e l’odorato: gandha. A questi cinque elementi oggettivi, si affiancano tre principi soggettivi: mahat (principio cosmico della forza), buddhi (principio intellettivo), ahaṁkāra (principio separatore tipico della formazione egoica).



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