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Puruṣa, il rigvedico Toro tetracorno


La musica, gli stati di felicità, la mitologia,
i volti scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi,
intendono dirci qualcosa, o qualcosa dissero
che non avremmo dovuto perdere,
o stanno per dire qualcosa;
questa imminenza di una rivelazione, che non si produce,
è – forse – il fatto estetico.

Jorge Luis Borges
(La muralla y los libros, in Otras Inquisiciones)

.



La scultura riprodotta qui sopra è situata nel tempio indiano di Paṭeśvar (nel Maharashtra), e rappresenta il Puruṣa secondo la descrizione offerta da ṛṣi Vāmadeva in Ṛgveda, IV.LVIII.3:


चत्वारि शृङ्गा त्रयो अस्य पादा द्वे शीर्षे सप्त हस्तासो अस्य ।
त्रिधा बद्धो वृषभो रोरवीति महो देवो मर्त्याँ आ विवेश ॥३॥


Ha quattro corna, tre zampe, due teste
e sette braccia; legato in modo
triplice, il Toro ruggisce con forza,
deità possente entrata nei mortali. (3)


Sri Aurobindo spiega che si tratta del «Toro tetracorno, il Puruṣa divino, le cui corna sono Esistenza, Coscienza, Beatitudine e Verità infinite. In immagini di efficace contrasto, che ricordano i grotteschi sublimi e le strane figure sopravvissute dell’arte antica, mistica e simbolica, del mondo preistorico, Vāmadeva descrive il Puruṣa nell’aspetto di un Toro, le cui corna sono i quattro principî divini, i tre piedi i principî umani (mente, vita e materia), le due teste la duplice coscienza di Anima e Natura, Puruṣa e Prakṛti; le sette braccia le attività naturali corrispondenti ai sette principî. “Legato in modo triplice” (nel mentale, nelle energie vitali, nel corpo), “il Toro ruggisce con forza: deità possente, entrata nei mortali”.» (Il segreto dei Veda).

Come ben sappiamo, il fatto estetico, nell’antichità (non solo in India, ma nel mondo intero) poggiava su fondamenta assai diverse da quelle canoniche tipiche dell’arte classica; solo di recente (da circa un secolo, pressappoco) il gusto estetico dell’umanità è andato progressivamente ampliandosi (più verso il basso che verso l’alto, purtroppo – ma questa è un’altra questione, che non riguarda quanto stiamo trattando), giungendo a riconoscere come l’arte preistorica non fosse meno bella di quella classica: semplicemente, per l’appunto, si basava su presupposti altri dai meri fattori esornativi, non di rado ignorandoli del tutto. Ciò che contava maggiormente era l’aderenza alla realtà interiore, non la somiglianza al modello esterno. Dopo la rivoluzione compiuta dall’arte contemporanea (a partire dalla seconda metà dell’Ottocento), l’umanità ha progressivamente universalizzato la percezione estetica, rendendo l’individuo sensibile capace di godere del bello anche nelle forme artistiche in precedenza considerate “selvagge” o “primitive” (nel senso deteriore del termine). L’arte del futuro dovrebbe, tra le altre cose, fondere insieme le due tendenze (la verità interiore e la precisione esteriore), in modo da dare vita a forme espressive che, se non del tutto nuove, siano perlomeno rinnovate nella sostanza: l’ambito dell’estetica dovrà necessariamente essere condotto alla sua ampiezza massima, tanto in senso orizzontale quanto in senso verticale (non solo verso il basso, come già ampiamente fatto, ma anche e soprattutto verso l’alto, là dove l’arte ha le proprie vere radici, similmente all’immagine dell’albero rovesciato presente in così tante cosmogonie mondiali).

Per tornare a noi, possiamo ammirare la raffigurazione del toro tetracorno senza attenderci alcuna verosimiglianza con un qualche animale appartenente alla fauna terrestre e cercare piuttosto di cogliere l’essenza di quanto l’antico scultore cercò di esprimere. Coadiuvati dal supporto (nella fattispecie, pressoché indispensabile) del Ṛgveda. L’antica innodia illustra infatti la differenza fondamentale esistente tra il Puruṣa immutabile (akṣara puruṣa) e il Puruṣa mutevole (kṣara puruṣa), mediante la bella immagine poetica dei due volatili –

Due Uccelli, eterni amici, stanno insieme
sul medesimo Albero; uno d’essi
mangia la dolce bacca, mentre l’altro
senza cibarsi, il suo compagno osserva.

Ṛgveda, I.CLXIV.20.


Il Puruṣa testimone, immobile e distaccato, si tiene al di sopra, imperturbabile, libero dai condizionamenti, su un ramo più alto rispetto a quell’altro Puruṣa assorbito nella Prakṛti (la natura fenomenica, ben rappresentata dall’albero, con i suoi rami dispiegati nel divenire cosmico); quando il puruṣa condizionato si accorge della presenza dell’incondizionato (imperturbato, immutabile, appagato), si specchia in quella condizione sovrana e diventa anch’esso libero (come spiegano magistralmente la Bṛhadāraṇyaka e la Śvetāśvatara Upaniṣad).


«Sul medesimo albero, l’uomo è sofferente, confuso dalla sua stessa impotenza. Ma quando egli scorge quell’altro che, sovrano, è lieto ed è consapevole della propria maestà, allora la sua sofferenza cessa.»

Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, III.I.2.


«Quello che mangia i frutti si duole del proprio stato ottenebrato; quando, tuttavia, si accorge dell’Altro che è signore e gode di tutto, contempla la sua grandezza e si dissolve in lui ogni sofferenza.»

Śvetāśvatara Upaniṣad, IV.7.


Da questa percezione fondamentale, una serie di conseguenze pragmatiche ne conseguono. A partire dalla disamina sperimentale dei sei diversi attributi del Puruṣa (sakṣī, jñātā, bhoktā, bhartā, anumantā, īśvara, già accennati in un precedente articolo – vedi ĪśvaraŚakti), fino alla rivelazione progressiva dei diversi stati di coscienza possibili per l’ātman, l’anima individuata (antarātman) che intende riacquistare la consapevolezza dell’anima cosmica (jivātman) e dell’anima trascendente (paramātman), in modo da giungere infine a riconoscere l’unità indissolubile di questi tre termini animici. L’esame dei quattro stati (ed ecco comparire un ulteriore tetracorno!) viene invece approfondita in alcune Upaniṣad (in primis la Māṇḍūkya), analizzando lo stato di veglia (jāgaran), lo stato di sonno onirico (svapna), lo stato di sonno senza sogni (suṣupti) e il cosiddetto quarto stato (turīya). Tali condizioni (esattamente come gli attributi di cui sopra) non sono affatto categorie concettuali da analizzare tramite l’umana ragione, bensì stati di coscienza da sperimentare con la pratica, principiando con l’ottenere una progressiva padronanza sui pensieri e sulle pulsioni vitali, tramite dhyāna (ध्यान), in modo da permettere alla conoscenza superiore (dapprima nella forma della divina Intuizione, quindi della Illuminazione, infine della Rivelazione – corrispondenti alle tre dee della Parola del Ṛgveda: Sarasvatī, Mahī, Iḷā – queste le strofe rigvediche in cui vengono invocate insieme: I.XIII.9; I.CXLII.9; I.CLXXXVIII.8; II.III.VIII; III.IV.8; III.LVI.5; V.V.8: VII.II.8; IX.V.8; X.CX.8) di instaurarsi nell’umana coscienza. Mediante la concentrazione profonda, l’assorbimento veggente dentro di sé (vipaśyana, da cui deriva la ben nota ‘meditazione vipassana’), si perviene alla visione genuina (paśyan, पश्यन्) che, attraverso una fase intermedia (madhyama, मध्यमा), permette di raggiungere lo stato più elevato (vaikharī, वैखरी), oltre il quale vi è unicamente l’Assoluto indifferenziato.


Parallelamente, tale presa di coscienza implica l’approfondimento dei quattro stati di coscienza, a partire per l’appunto dallo stato di veglia (considerato vaiśvānara –, per via del fatto che è comune a tutti gli esseri senzienti, in quanto stato rappresentativo di Virāt): è la condizione che accomuna gli animali umani e non umani, in cui si è coscienti del mondo circostante mediante il corpo fisico (sthūla śarīra), attraverso la mediazione dei sensi. Tutti gli esseri senzienti vedono uno stesso mondo, sebbene i sensi fisici possano essere diversi (per numero e per qualità) e, di conseguenza, la visione possa risultarne modificata nell’apparenza, sebbene non nella sostanza.

Nello stato onirico, per contro, la mente si ritrae dai sensi fisici e, per così dire, crea un mondo a sé, splendente di luce propria (tejas), ragion per cui si parla di taijasa, In realtà, lo stato onirico costituisce una realtà assai complessa, in cui il soggetto sognante entra in stati di coscienza disparati, grazie al proprio essere subliminale, al subconscio e, seppur più raramente, al sovracosciente. Vi sono mondi soprafisici (Hiraṇyagarbha ne identifica lo spirito) ai quali l’individuo può accedere esplorando la propria attività onirica in modo metodico: un retromondo fisico-sottile, mondi vitali, mondi mentali e altro ancora, accessibili tramite il ‘corpo sottile’ (sūkṣma śarīra) con i suoi peculiari sensi sottili (sūkṣma indrīya). Al risveglio, il ricordo di tali esperienze si traduce nel cervello in forma di sogni più o meno bizzarri. Ma se si ha la pazienza e l’interesse a esplorare tali fenomeni, si finisce per diventare coscienti della effettiva esistenza di piani di coscienza soprafisici a cui i nostri corpi sottili hanno accesso. Il fenomeno del “sogno lucido” è una delle tante scoperte che si aprono al ricercatore interiore.


Quando la coscienza si trova immersa nel sonno profondo, in cui non avvengono sogni, il sé individuato si separa dalla propria forma materiale (ovvero, dall’identificazione con il corpo fisico) e attinge alla conoscenza essenziale, prajñā (प्रज्ञा). Il fatto che l’essere senziente sia in genere completamente identificato con la propria formazione egoica, con l’io-di-facciata, rende di fatto lo stato di sonno profondo una sorta di buco nero nel quale sprofonda, senza riportare nello stato di veglia alcun ricordo di esso. Anche in questo caso, tuttavia, la sperimentazione metodica permette di creare o di trovare i necessari ‘ponti di collegamento’ fra la coscienza frontale e la coscienza profonda, in modo da diventare coscienti anche nello stato di sonno profondo, riportandone in superficie (del tutto o in parte) la pura consapevolezza che lo costituisce.


Infine, nel cosiddetto quarto stato turīya, (detto anche “un certo quarto”, turīyam svid), si attua l’unione con l’incondizionato Assoluto, in cui “l’uccello testimone” dell’immagine rigvedica, il puro osservatore silenzioso e distaccato, è completamente desto nella propria ineffabile trascendenza. L’inno rigvedico X.CXXIX offre alcuni spunti interessanti in tal senso, quando afferma che


[…] i bardi meditanti, in cuor trovarono
nel Non-essere i margini dell’Essere. (4)
Trasversale si estese il loro Raggio;
qualcosa sopra e pur qualcosa sotto:
Fecondatori, generanti Forze
— la stasi sotto, il dinamismo sopra. (5)



Il centro di unione e di collegamento (bandhu) fra quanto sta sopra e quanto sta sotto, come pure fra quanto sta dentro e quanto sta fuori, si trova nella gnosi sopramentale (vijñāṇa), ove la dicotomia fra Puruṣa e Prakṛti (come ogni altra dicotomia: stasi e dinamismo, personale e impersonale, maschile e femminile, essere e divenire, mondo e oltremondo, spirito e materia, ecc.) è infine sanata. A quel punto, si rivela necessario cercare di rendere la manifestazione una espressione non più deformata dell’Essere (come invece attualmente è), in modo da realizzare il grande sogno accarezzato fin dall’alba dell’uomo: “Cielo e Terra uguali e uniti”: ujanta rodasi (Ṛgveda, VIII.XX.4).



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