SRI AUROBINDO E L’OPUS RIGVEDICO
«Il Ṛgveda è un’opera senza tempo: è il documento più antico esistente
della nostra civiltà euroasiatica e dell’intera umanità,
tratta argomenti che sono attuali (soprattutto in questi tempi di profonda crisi planetaria)
ed è proiettato verso il futuro.»
Leonardo Cellai
I ṛṣi rigvedici erano alla ricerca del “grande passaggio” (mahas patha) in grado di creare un ponte di collegamento tra Cielo e Terra, in modo da armonizzare Materia e Spirito, al punto da arrivare a esperire l’immortalità non solo a livello interiore e spirituale, ma anche oggettivo e materico. Una linea di ricerca che le mistiche successive perderanno, concentrandosi con sempre maggiore esclusivismo su una trascendenza statica, negatrice della realtà fenomenica.
Non a caso Sri Aurobindo — che, insieme a Mère, sua inseparabile compagna, si consacrò all’Opera della Trasformazione della Materia e alla compiuta interazione tra Essere e Divenire —, leggendo i testi vedici nell’originale ne colse il senso autentico, fino allora incompreso (solo il simile è in grado di riconoscere il simile!). Ecco quanto Egli stesso confida negli anni Dieci: «Come la maggioranza degli indiani colti, avevo accettato passivamente, senza esaminarle, prima ancora di aver letto personalmente i Veda, le conclusioni dell’erudizione europea, sia per quanto riguarda il significato religioso sia per quello storico e etnico degli antichi inni. Di conseguenza, continuando a seguire la linea ordinaria adottata dall’opinione degli hindu modernizzati, consideravo le Upaniṣad come la sorgente più antica del pensiero e della religiosità indiani, il vero Veda, il primo Libro della Conoscenza. Il Ṛgveda, nelle traduzioni moderne che costituivano tutto quello che conoscevo di questa profonda scrittura, rappresentava per me un documento importante della storia nazionale, ma sembrava di scarso valore o importanza per la storia del pensiero o per una esperienza spirituale vivente. Il mio primo contatto con il pensiero vedico è venuto indirettamente, allorché perseguivo certe linee di sviluppo interiore sulla via dello yoga; queste linee, senza che lo sapessi, andavano spontaneamente in direzione di una convergenza con le vie antiche, ora abbandonate, seguite dai nostri antenati. A quel punto, cominciò a sorgere nella mia mente un insieme di nomi simbolici connessi a certe esperienze psicologiche che avevano cominciato a organizzarsi; e fra queste vennero a definirsi le figure di tre energie femminili: Iḷà, Sarasvatī, Saramā, rappresentanti separatamente tre delle quattro facoltà della ragione intuitiva — rivelazione, ispirazione e intuizione. Due di questi nomi mi erano vagamente noti come appartenenti a dee vediche, ma erano piuttosto in relazione con la religione hindu corrente o con la vecchia leggenda puranica: Sarasvatī, dea del sapere e Iḷà, madre della dinastia lunare. Mentre Saramā mi era abbastanza familiare. Ero tuttavia incapace di stabilire il minimo rapporto tra la figura che nasceva nel mio pensiero e il segugio vedico del cielo, nella mia memoria associato alla Elena argiva e rappresentante soltanto una immagine dell’aurora fisica che, durante il suo inseguimento degli armenti della luce scomparsi, penetra all’interno della caverna dei poteri dell’ombra. Una volta trovata la chiave, la chiave della luce fisica raffigurata in cattività, è facile vedere come il segugio del cielo può essere l’intuizione che entra nelle oscure caverne della mente subcosciente, per preparare la liberazione e l’esplosione all’esterno delle brillanti illuminazioni della conoscenza che vi erano rimaste imprigionate. Ma la chiave mancava e fui così obbligato a supporre una identità del nome senza la minima identità del simbolo. [...] L’importanza di tale elemento è aumentata ai miei occhi quando ho scoperto, per prima cosa, che i mantra vedici illuminavano di una luce nitida e precisa le mie personali esperienze psicologiche, per le quali non avevo trovato spiegazione sufficiente né nella psicologia europea né negli insegnamenti dello yoga o del vedānta, per quanto mi fossero familiari e, seconda cosa, che essi diffondevano luce su passi o idee oscure delle Upaniṣad ai quali non avevo potuto attribuire, prima di allora, un significato esatto e davano allo stesso tempo un significato nuovo a gran parte dei Purāṇa.» (Il segreto dei Veda, traduzione italiana edita da La Calama editrice - pagg. 52-56).
È evidente che Sri Aurobindo colse la possibilità della trasformazione sopramentale per vie interiori — e, quindi, «non dai Veda o dalle Upaniṣad, al punto da ignorare che essi potessero contenere un qualche riferimento in tal senso» (Letters on Yoga I, pag. 309). Si tratta quindi di qualcosa ricevuto e sperimentato «in modo diretto, non in forma di conoscenza derivata; è stato soltanto in seguito che ho individuato alcune rivelazioni nelle Upaniṣad e nel Veda a conferma.» (ibidem).
Pertanto, Sri Aurobindo presta il proprio corpo al processo di trasformazione, rendendo possibile per la coscienza terrestre il passaggio fisico oltre l’umano. Negli anni Venti — e, per la precisione, in una conversazione del 15 agosto 1923 —, Egli illustra in prima persona la fase in cui all’epoca si trova: «Al momento sono impegnato a calare il Sopramentale nella coscienza fisica, fin giù nel submateriale. La materia è per intrinseca natura inerte, e non vuole saperne di essere resa cosciente. L’impressione è quella di “scavare la terra”, come dice il Ṛgveda. Si tratta letteralmente di scavare dalla Sopramente in alto al Sopramentale in basso. L’essere è diventato cosciente e vi è un costante movimento di ascesa e di discesa. Il Ṛgveda parla delle “due estremità” — la testa e la coda del drago, che completano e inglobano la coscienza. Ho scoperto che finché la materia non viene sopramentalizzata, la mente e il vitale non possono essere completamente sopramentalizzati. Il dominio materiale deve quindi essere accettato e trasformato. È questo susseguirsi di nascita dopo nascita su ciascun piano di coscienza a rendere il procedimento così complesso. Sto cercando di calare la sommità più elevata della Sopramente nella coscienza fisica.» (Purani, Evening Talks with Sri Aurobindo - pag. 504).
Quindi, dopo anni di metodiche sperimentazioni, Sri Aurobindo giunge a constatare nella prassi che il Ṛgveda è in grado di gettare solo luci parziali (per quanto preziose!) sul processo della trasformazione e, di conseguenza, sente il bisogno di trovare nuove leve, come sempre per vie interiori, mediante la propria metodica sperimentazione e il proprio pionieristico lavoro. Negli anni Trenta confida a un corrispondente: «Dopo avere incorporato alcune parti della metodologia vedica (entro i limiti che mi è stato possibile comprendere e recuperare), ho constatato la loro insufficienza e, conseguentemente, ho dovuto spingermi oltre.» (Letters on Yoga II - pag. 403).
Resta per tutti noi sbalorditivo e immensamente proficuo confrontarsi con il Ṛgveda e constatare come un testo talmente antico possa contenere alcune dinamiche di un processo che solo ora — grazie all’infaticabile Lavoro di Mère e Sri Aurobindo e alla lunga e penosa spirale evolutiva umana — è diventato maturo e possibile in seno alla coscienza terrestre.